mercoledì 7 novembre 2007

Viaggio in Nepal


La scorsa estate Chiara Ferronato, una delle due ragazze che si accinge ad iniziare il Servizio Civile ad Incontro fra i Popoli, è stata a fare uno stage in Nepal e ci ha resi partecipi della sua esperienza con questo bel articolo.


"Seduta su un pezzo di legno che fa da panchina, inumidita dall’umidità del monsone che da ore si scarica sulla valle tra Milanchock e Salija, mi capitava di pensare al tetto del mondo.
Ero a Salija, un agglomerato di case che sembrano vecchie, 500 famiglie circa, a Nord Ovest di Pokhara, Nepal. I ricchi hanno il tetto di mattoni, i poveri di legno e paglia.
Altitudine da 1900 fino a 3000 metri sul livello del mare, praticamente un villaggetto schiantato in verticale sulle colline dell’Himalaya; clima diversificato a dir poco; temperatura diversificata a dir poco.
L’unica cosa costante in questo posto dimenticato anche dai guerriglieri maoisti durante la guerra popolare, è il cibo.
Riso e patate a colazione, riso e patate a cena. Tutto ciò che ci sta in mezzo sono patate e cilly.
E Ciai, il thè col latte che è meglio ancora non bere.
Qui la gente segue un ritmo strano e per tanti versi inconcepibile.
Sul tetto del mondo il tempo è un'altra cosa. È un tetto scoperto e umido, che a tratti lascia vedere le stelle, ma ha un tempo e una logica che si mischia male con le fondamenta del mondo, dove tutto è frenetico, e tutti corrono per andare o fare cosa non si sa.
Qui nessuno corre, tutti camminano… incessantemente, e aspettano.
Ognuno è autosufficiente. Indipendente e autonomo. Basta un piccolo appezzamento di terra, un frammento di ettaro e una baracca di mattoni o di fango e lamiera per definirsi “essere umano”, membro di una Comunità.
È una società quasi perfetta. I ruoli tra uomo e donna sono quasi equamente divisi, e infondo è comprensibile, poiché tutto è in funzione della sopravvivenza, e il bisogno di aggregarsi e darsi una costituzione si traduce in un sistema egualitario e solidale come non si trova in alcun angolo del pavimento del mondo.
All’interno di una struttura amministrativa ingiustamente complicata, in queste valli la gente ha deciso di mettere insieme le proprie forze per conservare e sfruttare al meglio le risorse che ha intorno. E cosi nascono i CFUG, Community Forest User Groups.
Usano energia solare, portata dai giapponesi, per trovare il bagno di notte, e si riuniscono una volta al mese per pianificare le attività della Comunità. Vivono sul tetto del mondo, ma quella che chiamiamo civiltà (se per civiltà intendiamo la struttura regolata che ci contiene) esiste anche qui, e anzi: direi che quasi quasi funziona meglio che da noi. Ogni rappresentante di villaggio, uomo o donna, è responsabile della propria gente e della propria vita e cosi da voce ai bisogni e alle pretese dei suoi vicini. E in nome di tutto ciò le regole stabilite sono rispettate. Questa è democrazia partecipativa.
Certo non tutto è perfetto e roseo. Anche a Salija c’è una piccola forma di corruzione, e una stratificazione sociale che vela gli occhi della gente come i nostri leghisti pregiudicano certi gli immigrati, ma tutto sommato le cose funzionano, e c’è spazio anche per la solidarietà.
Ma a parte questo, voglio parlare delle donne.
Le donne di un Paese induista e mezzo buddista, le donne che un giorno sono uscite dai feudi e hanno abbracciato il fucile per prendersi la loro dignità.
A Salija gli unici fucili sono quelli dei Gurung, mercenari dell’esercito indiano e inglese in pensione, ma ripeto: a Salija siamo sul tetto del mondo, e tutto sembra seguire un ritmo diverso, e una logica tutta sua.
Ci sono stati in passato, dei corsi di formazione rivolti a giovani donne e oggi queste hanno diffuso il loro sapere ad altre giovani donne e lanciato una bella attività imprenditoriale.
Per la verità si tratta di una casa presa in affitto, di un paio di telai di quelli che si usavano qui forse prima della 2guerra, e qualche macchina da cucire, ma ciò che ci sta dietro, messo in questo contesto, appare straordinario.
Queste signore, ragazze, per lo più non sposate, hanno trovato spazio nella loro giornata sui campi, per un attività alternativa e redditizia che le rende uniche.
Per 4 mesi l’ anno raccolgono Allo, una pianta dalle foglie larghe e spinose, apparentemente insignificante, ma potenzialmente sorprendente.
Arrivano cariche come muli vicino alla casa e cominciano ad essiccare le foglie.
Bollono, seccano, impastano.. finché ne ricavano una matassa lanosa che lavorano in una specie di mulino per fare un fino. Filo di Allo, simile a juta, ma meno corposo… simile al cotone.. ma più resistente.
Il resto poi è tutto lavoro di tessitura. Per giorni anche, fino ad arrotolare metri e metri di tessuto.
Diventerà una borsa, una camicia, forse un centrotavola o un paio di pantaloni.
Ma la catena qui sembra fermarsi. Non c’è ancora una strada che collega Salija al resto del mondo, solo un sentiero a scalini che sembra interminabile; e non c’è abbastanza domanda, (o forse un offerta pubblicizzata?).
La produzione non è industriale, ma la soddisfazione di queste donne, braccia strappate all’agricoltura e al volere del marito, é grande. La loro ambizione? Quella di uscire dall’isolamento che regna sul tetto del mondo.
Che sia un punto di inizio? Fra 2 anni probabilmente ci sarà una strada e allora le possibilità di crescere saranno maggiori se ben sfruttate.
Se qualcuno dall’esterno studiasse a fondo questa valle probabilmente si accorgerebbe di quanto densa di materia prima è, e come troppo spesso accade, il bombardamento imprenditoriale avrebbe il sopravvento sull’equilibrio sociale del villaggio.
Se sapranno muoversi bene, se la foresta resterà ben gestita, se la Coca Cola non scoprirà la potenzialità di questa foresta, forse questo strano tempo darà un’alternativa migliore a queste donne conservando il loro sogno e non trasformando la loro ambizione in perversa sete di possesso. Dico la Coca Cola, che per ora solo vende bottigliette a Salija, ma potrebbe stabilire una piantagione di Wintergreen (un’altra pianta il cui distillato è uno degli ingredienti della Coca Cola). Se sapranno resistere a tutto ciò che potrebbe rovinare una strada verso il pavimento, alla polvere che salirà a sconvolgere il tempo di questo villaggio, forse anche loro avranno il riposo che meritano".

Chiara Ferronato

1 commento:

Anonimo ha detto...

In uno spazio come questo è difficile immergersi avendo sempre guardato il mondo dal pavimento, tuttavia potrebbe forse accadere che il pavimento si trasformi per ridiventare come il tetto, visto che le risorse sono in esaurimento. E' consolante sapere allora che si potrà vivere camminando alzando la testa verso un nuovo progresso, misto di essere e divenire, non solo di avere, anche se l'uomo senza l'avere difficilmente si sente d'essere.
Francesco